Recensione “Lo Stivale D’oro Di Istanbul” di Elsa Zambonini

 

 

 

 

 

Lo stivale, che conosceremo come lo stivale del sultano, incarna almeno tre concetti: Italia, Turchia e potere maschile. Il romanzo tratta infatti vicende che mettono in contatto italiani, turchi e levantini. L’idea del potere, che lambisce presidenti e sultani, è principalmente trattata nel suo significato più domestico: il rapporto fra un marito-padrone e una donna che è tanto maggiormente esposta alla sua repressione, quanto più è colta e capace.

Sullo sfondo di una Istanbul esotica e avvolgente, attraverso un intreccio di colpi di scena, amore e avventura, si snoda il percorso di crescita di una donna che deve imparare a fare i conti con il passato, tragico, della sua famiglia.

È il retaggio famigliare a spingere Lisa ad accettare un posto come insegnante di lettere nel liceo italiano dell’antica capitale ottomana, sfidando l’opposizione del padre. Il vero scopo del suo viaggio in Turchia è di scoprire perché lui l’abbia tenuta nella più totale ignoranza a proposito della moglie, deceduta a Istanbul quando lei era poco più che neonata.

Dalle informazioni che riesce a raccogliere, Lisa scopre una madre molto diversa, più fragile di quella che ha sognato per tutta la sua vita, e così si delinea davanti ai suoi occhi l`immagine di una donna succube di un marito geloso e violento che per anni l’ha costretta a rinunciare alla sua personalità (e al pianoforte, la sua vera passione). 

Lisa è scossa dal ritratto del padre, che non riesce a far coincidere col genitore affettuoso che ha conosciuto e amato. E tanto più lo sarà man mano che si accumulano degli indizi contro di lui, fino a delineare un quadro terribile. 

Dopo molti colpi di scena, fatti i conti col passato, Lisa resterà a Istanbul, città che si è indelebilmente insinuata nel suo destino e nel suo cuore.

“Lo stivale d’oro di Istanbul” è l’opera prima di Elsa Zambonini, bellunese di nascita ma trasferitasi a Istanbul dopo il matrimonio con un uomo di nazionalità turca. Lì la Zambonini ha insegnato al liceo italiano ed è venuta a contatto con la cultura, la società e le varie realtà di un paese al quale è rimasta profondamente legata. Da questo legame con la città turca e dalla sua esperienza come insegnante ha preso vita il suo romanzo, che vede come protagonista Lisa, una giovane donna italiana nata a Istanbul ma cresciuta con il padre a Treviso, dove si trasferisce dopo la morte della mamma, avvenuta quando lei aveva meno di un anno. Lisa tornerà ad Istanbul, ventotto anni dopo, per insegnare italiano in un liceo della città… ma anche, anzi direi soprattutto, per fare ricerche sulla figura di sua madre, della quale il padre non ha mai voluto parlare, quasi come fosse un argomento proibito e da evitare. Tra vicoli stretti e pieni di gente, strade cariche di profumi orientali, negozi polverosi stipati di oggetti antichi, paesaggi mozzafiato e case caratteristiche, si snoda la vicenda che vedrà Lisa indagare e, grazie anche all’aiuto di alcuni amici sinceri, scoprire finalmente la verità su sua madre e sulla sua famiglia.

Leggendo questo libro mi sono trovata divisa a metà tra due sensazioni opposte. Da un lato (quello positivo), la storia che, tutto sommato, è costruita bene, con qualche colpo di scena sapientemente seminato che fa salire l’attenzione e ti tiene ben incollato alle pagine. Dall’altro, la scrittura. Il romanzo è scritto in prima persona, al tempo presente, in uno stile che sembra più che altro quello di un diario personale, pur non essendolo. E qui già siamo davanti al primo punto debole: non si capisce se siamo nel quaderno personale di Lisa o in una narrazione vera e propria, ci si sente disorientati. Mano a mano che il libro va avanti ci troviamo, spesso, di fronte a descrizioni minuziose di viuzze, di mercatini, di negozi o alle spiegazioni di usanze religiose, di cibi e altre cose del genere, a volte inserite nel mezzo di un’azione. E’ chiaro che l’autrice vorrebbe, in questo modo, farci respirare il clima in cui lei stessa ha vissuto durante la sua permanenza a Istanbul ma il risultato è una scrittura didascalica, spesso ridondante, che distrae troppo dagli avvenimenti e crea continui cali di tensione. Un altro punto debole sono i dialoghi tra i personaggi, che si esprimono in modo spesso improbabile e, se mi passate la parola, quasi “infantile”. Presa dalle descrizioni dell’ambiente e dall’intreccio, l’autrice ha tralasciato la psicologia dei personaggi, creando quindi delle figure stereotipate più simili a bassorilievi che tridimensionali. Soprattutto il padre della protagonista e la psicanalista, Suzan, con le loro personalità cupe, ambigue e il ruolo importante che rivestono nella storia, avrebbero avuto potenzialità notevoli che non sono state sfruttate. Peccato. In generale, l’ho trovato un libro furbo – perché, è innegabile, finché non si arriva alla fine della storia si va avanti a leggere con curiosità – ma scritto in modo “acerbo”, con troppe ingenuità e un paio di refusi e alcune cadute di stile che mi hanno proprio fatto storcere la bocca. Consigliato solo se avete voglia di una lettura evasiva e rilassante, non certo se cercate un libro profondo che possa lasciare il segno.
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