Recensione “L’atelier segreto di Parigi” di Juliet Blackwell

 

 

Capucine Benôit lavora insieme al padre, un rinomato artigiano che produce ventagli di pregio, richiestissimi dalle più importanti case di moda parigine. Ogni giorno nella loro bottega si usano piume colorate, perline e magnifiche stoffe per realizzare dei veri e propri capolavori. Quando i nazisti occupano Parigi, Capucine e suo padre vengono arrestati a causa delle loro posizioni politiche, di cui non hanno mai fatto mistero. La polizia segreta, che ha ricevuto una soffiata sul loro conto, li arresta all’interno dell’attività. E così finiscono nella rete del sistema repressivo nazista.
Nel cuore della città è stato allestito un campo di lavoro: centinaia di prigionieri smistano, riparano e catalogano le enormi quantità di beni artistici e di valore saccheggiati dagli occupanti.
Nonostante il duro lavoro e la costante minaccia di ritorsioni da parte degli aguzzini nazisti, Capucine si aggrappa all’unica speranza che le è rimasta: sapere che Mathilde, sua figlia, si trova al sicuro nella casa dei nonni paterni. Ma un incontro imprevisto potrebbe cambiare tutto…

Quando pensi di aver letto da ogni prospettiva gli eventi della Seconda guerra mondiale, ecco che arriva questo romanzo a smentirti.

Dei campi di lavoro situati a Parigi proprio non ne avevo mai sentito parlare e hanno rivelato nuove sfaccettature sulle ingiustizie perpetrate durante il conflitto.

Non solo eliminare gli elementi “impuri”, svuotarne le case e mettere a disposizione della Germania ogni più piccolo bottino di guerra, ma anche il desiderio di voler cancellare dalla memoria le persone deportate, distruggendo ogni traccia della loro esistenza.

Questo romanzo è ispirato a fatti realmente accaduti al magazzino Lévitan di Parigi, dove un gruppo di prigionieri si occupava di pulire, riparare e catalogare ogni bene sequestrato nelle case degli ebrei.
I mobili e suppellettili andavano a rifornire le case (requisite sempre agli ebrei) degli ufficiali nazisti e delle loro mogli o amanti francesi, oltre ad inviare in patria il rimanente.

Capucine non è ebrea ma figlia di un artigiano di ventagli filo comunista e, in quanto tale, soggetto non gradito al regime. Da ragazza che folleggiava nei locali jazz nel primo dopoguerra, anima libera e anticonformista, si ritrova a smistare merce e ripulire le stoviglie dall’ultimo pasto consumato nelle loro case dai poveri deportati e poi, vista la sua attività creativa nell’ambito degli accessori di moda, viene incaricata di fare da consulente per gli arredi nelle case dei nazisti.
Il suo racconto viene intervallato da quello di sua figlia Mathilde, affidata in tenera età ai nonni paterni, dopo la morte del padre.

Secondo i cattolicissimi e collaborazionisti nonni, Capucine non era in grado di occuparsi della bimba e dedicarsi alle sue nottate fra i locali, quindi la ragazza è cresciuta con i dettami rigidi di altri tempi.
Ma il sangue non mente e piano piano Mathilde comincia a scoprire molte più affinità con la madre di quante se ne sarebbe aspettata e frequentando di nascosto l’atelier, ormai abbandonato, riscopre le sue origini.

Il duro lavoro al Lévitan viene mitigato dalla qualità dei rapporti umani che Capucine riesce a creare con gli altri prigionieri, ma anche sferzato dalla crudeltà delle guardie che non perdono occasione per metterli in ginocchio.

Interessante anche vedere i destini dei vari personaggi che un tempo erano uniti: chi diventa parte della resistenza, chi per non patire le ristrettezze si gode l’illusione che tutto vada bene diventando amante dei nazisti, o collaborando con loro per avere dei vantaggi, oltre ovviamente ai prigionieri ebrei che cercano di mantenere viva la fede e le tradizioni anche nelle situazioni più disperate.

Dal suo canto Capucine si trova immersa nella cultura ebraica di cui comincia a conoscerne i risvolti, lottando ogni giorno contro la fame e la fatica, ricordando l’amato marito e anche il fidanzato americano che ha deciso di allontanare ancor prima della guerra. Della “ragazza dei ventagli” che brillava sulle piste da ballo è rimasto solo un involucro svuotato dalla verve e dalla leggerezza che la contraddistinguevano, ma trova una forza insperata di lottare per sopravvivere e cercare di fare la sua parte per contrastare il malvagio piano nazista.

È stata una lettura molto sentita e sofferta, l’autrice riesce a far arrivare al cuore del lettore i sentimenti che muovono i personaggi, rendendoceli vivi e vibranti.

Gran bella finestra sulla situazione parigina negli ultimi periodi del conflitto. Consigliato.

firma Anna

firma Claudia

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