Recensione “I diari dell’Olocausto” di Alexandra Zapruder

 

 

 

 

 

 

Questa commovente raccolta riunisce alcune incredibili storie scritte durante l’Olocausto da ragazzi tra i dodici e i ventidue anni. I protagonisti erano rifugiati o abitanti dei ghetti, o ancora giovani costretti a nascondersi dalla violenza delle leggi razziali. Sono pagine di diario, appunti, scritti in presa diretta, spontanei e toccanti, il cui valore di testimonianza ha pochi eguali nella storia. Quasi tutti i loro autori, infatti, morirono prima della Liberazione. Questo libro, vincitore del National Jewish Book Award, testimonia in modo vivido le impressioni e la sofferenza di chi visse sulla propria pelle lo sterminio nazista, compone il reportage inconsapevole di bambini e ragazzi alle prese con le difficoltà giornaliere dettate dalle persecuzioni. I loro pensieri, le loro idee e i loro sentimenti avvicinano il lettore a un livello più profondo di comprensione degli orrori dell’Olocausto.


Nell’immaginario comune un diario è uno strumento che gli adolescenti solitamente usano per confidare i primi batticuori, i litigi con gli amici e le difficoltà tipiche di questa età difficile.

Ma quando gli adolescenti in questione hanno la sfortuna di passare questo momento delicato in un contesto storico terrificante come quello della seconda guerra mondiale e, per completare l’opera, sono anche ebrei, ecco che il diario acquista un significato del tutto differente, diventa una testimonianza per l’umanità.

La memoria va automaticamente ad Anna Frank, che ebbe però l’esperienza di vivere nascosta in una casa di Amsterdam, in questa raccolta invece sono per lo più testimonianze provenienti dai ghetti.

I diaristi, questi ragazzi ancora così giovani ma con una proprietà di linguaggio e una cultura così superiore a quella dei nostri adolescenti, dimostrano una maturità impressionante, una capacità di analisi e uno spirito di adattamento commoventi.

Le famiglie di questi giovani ebrei erano ben inserite nella società che le ospitava, spesso non erano neppure praticanti, eppure la malvagità umana ha voluto strappare questi medici, musicisti, professionisti abbienti e le loro famiglie dalla loro vita agiata all’inferno del ghetto. Anzi dal pre-inferno. Perché l’inferno vero e proprio cominciava con le deportazioni verso i campi di annientamento.

Quando viene a mancare il necessario, le cose futili non vengono nemmeno menzionate, quando c’è la fame non si pensa nemmeno all’amore e il chiodo fisso di questi ragazzi è il cibo che viene distribuito in quantità sempre inferiori. La morte ad un certo punto non viene nemmeno più temuta, ma considerata come scappatoia da un’esistenza miserabile e ci si abitua alle deportazioni degli amici e affetti più cari.

Le esperienze riportate dai vari diaristi sono ovviamente a tema comune ma ognuno di loro porta un punto di vista differente: c’è il ragazzo in attesa di poter espatriare verso nazioni sicure, la famiglia che abbandona la propria casa e si nasconde nei boschi. Anche gli abitanti dei ghetti ci regalano prospettive diverse: c’è il figlio dell’esponente del  consiglio ebraico che ancora gode di privilegi, c’è l’intellettuale che partecipa attivamente alle iniziative culturali  organizzate, c’è la ragazza che si occupa di gestire l’organizzazione del ghetto quando i tedeschi fuggono a fine conflitto

Un testo lungo, doloroso ma anche bellissimo; all’inizio ho dovuto interrompere spesso la lettura perché, quando realizzavo che non si trattava di un semplice racconto ma di una testimonianza, non riuscivo a proseguire tanto il dolore si impossessava di me. Sapere però che l’intento dei ragazzi di trasmettere le informazioni è stato compiuto mi fa sentire il peso di questo testimone fra le mani e se potrò consigliare a più persone possibili di leggerne le parole e comprendere, piangere e pregare per le anime di questa povera gente, bene lo farò.

 

 

Voglio lasciare un estratto, una delle frasi che mi ha devastato di più il cuore:

 

“Qui i bambini piccoli, aggrappandosi alle braccia della madre e chiedendo “mamma mettimi davanti a te, non voglio vedere quando ti uccidono” non solo vengono costretti a guardare avanti ma vedono persino come una persona possa avere una pistola in una mano e un panino o una bottiglia d’acqua nell’altra”

 

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