Recensione “Fuoco nel ghiaccio” di Keira Andrews

 

 

La temperatura si abbassa e l’atmosfera… si surriscalda.

Tormentato da ciò che ha perso in Afghanistan, il capitano Jack Turner si trova a un punto di svolta. Una missione di routine nell’Artico lo strappa dal suo noioso lavoro d’ufficio, ma le cose con il Ranger canadese che dovrebbe guidarlo in quelle terre così ostili e pericolose partono con il piede sbagliato. Jack non sa quale sia il suo posto, ma di certo preferirebbe che non fosse nella stessa tenda del sergente Kin Carsen.

L’Artico scorre nelle vene di Kin, che non riesce a lasciarsi la tundra alle spalle. Vorrebbe poter vivere apertamente la sua omosessualità, ma l’estremo nord non è tollerante come il resto del Canada. Nonostante la solitudine è orgoglioso del suo ruolo di responsabilità di Ranger, incaricato di pattugliare le terre sterminate che conosce così bene. Ma con Jack si trova in un territorio sconosciuto, e quando una tempesta li isola dal mondo, tra di loro si accende un desiderio inatteso. Ben presto si ritrovano a lottare per la sopravvivenza, due sconosciuti che possono contare solo l’uno sull’altro.

 

Veloce e non così originale.
Non nascondo che, quando ho letto la parola fine, ci sono rimasta male.

Il libro tratta temi importanti, come il disturbo da DSPT, ma è davvero appena accennato, e secondo me, non è una cosa fatta poi così bene.
Come in altre storie, c’è di mezzo l’Afghanistan e c’è una bomba che esplode: in questa di diverso c’è che a morire è il compagno del protagonista, mentre
Jack Turner si salva, anche se rimane segnato da cicatrici evidenti sul corpo. Entrambi hanno sulle spalle un lutto importante che li accomuna: Kinguyakkii Carsen detto Kin, ha perso suo fratello, morto cadendo in un precipizio, quando lui era all’università.

Peccato, perché la storia di per sé partiva già in maniera differente, essendo ambientata nel nord del Canada, con un bel paesaggio fatto di ghiaccio e freddo, ma sempre affascinante e magico.
Mi sono piaciuti gli accenni
alle usanze del Nunavute la lingua inuktitut di cui vengono spese alcune parole. Ho apprezzato la caratterizzazione e il tormento di Kin, uomo gay in un luogo impervio e fuori dal mondo, dove tutti si conoscono e dove ancora la sessualità è vista come un tabù. Non ha un’esistenza facile, ma ama le sue origini e quella terra così bella e altrettanto inospitale. Basta una notte dentro una tenda, bloccati da una tempesta di neve a far cambiare tutto? Sì, anche nella realtà esiste il colpo di fulmine, ma l’autrice ha avuto svariati spunti da approfondire per far sì che questa diventasse una storia intensa.
A me, ad esempio, è piaciuto molto il modo in cui Jack esplode verbalmente prima che Kin lo travolga con un bacio da far tremare le gambe. Si è dilungata invece nel ricordo di
Grant, tirato in ballo in almeno tre occasioni. Probabilmente, leggendo la trama, la mia aspettativa è stata abbastanza alta, tanto da non accorgermi che il libro contava solamente centodue pagine.

Anche il finale è frettoloso e poco approfondito, lasciando al lettore l’immaginazione del reale epilogo della storia. Mi aspettavo qualcosa di diverso anche per quello che riguarda l’intimità dei due protagonisti: non che volessi una cosa a luci rosse, ma una scena tenera in cui Kin e Jack magari si dichiarano mentre fanno l’amore…

Quindi, tirando le somme, questa lettura non mi ha convinto, soprattutto perché c’era modo di sviscerare e sviluppare la storia, in modo da renderla accattivante e coinvolgente.

Alla prossima!

BARBARA M

firma Claudia

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