Recensione “Brazil” di Elena Storace e Angelo Trombetti

 

“Brazil” è il viaggio che Sibilla, una giovane donna italiana, compie in Brasile dopo che il fratello è finito in prigione nella città di San Paolo. La storia verte sul cambiamento della protagonista, sulle riflessioni e la crescita che il violento impatto con una realtà tanto distante e incontrollabile fanno maturare in lei. La personalità, definita e codificata dall’esperienza di vita fino a quel momento sperimentata, inizia a plasmarsi su una nuova dimensione, si sfalda, si ricompone. Ad alimentare tale mutazione è il dolore, il senso di ingiustizia e sopra ogni altra cosa la determinazione che Sibilla acquista nel lasciarsi sì modellare, ma non corrompere nella natura. Le rimarranno impressi nella memoria – e nell’anima – gli occhi, gli odori, la lingua dei colonizzati, la musica dei detenuti e delle madonne bambine, che cantano e cantano al primo Dio che voglia ascoltarli.

 

 

Un libro letto tanto tempo fa, ma per mancanza di tempo ne avevo tralasciato la recensione.

Un libro che tocca l’anima, l’amore di una sorella verso il fratello imprigionato ingiustamente.

Sola contro una burocrazia diversa, in un Paese straniero: il Brasile.

Le carceri brasiliane non hanno niente a che vedere con quelle nostrane che paiono al confronto lussuose: sono abbastanza sporche, e vi si annidano le peggior specie di umanità.

Un viaggio di speranza, di lacrime e ricordi.

Un viaggio dove la meta è la libertà, molto lontana da raggiungere, faticosa e inarrivabile.

“Nessuna roccia è più forte del vento e come il vento, io sì, andrò ovunque per salvarti.”

Una promessa.

Un’esperienza di vita, forse uno degli ultimi libri letti che diversamente hanno toccato le corde del mio cuore.

 

 

Anna

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