Intervista a Stefania Sperandio

Intervista a Stefania Sperandio

di Letture sale e pepe

 

Ciao Stefania, prima domanda. Se fossi un lettore che sta leggendo il tuo libro, come lo definiresti? Cosa diresti su ciò che hai scritto? 

Credo sia una domanda difficile, sai? Qualche tempo fa, rimasi molto colpita da un’intervista ad Alice Sebold, in cui l’autrice disse che «non so come faccia a scrivere chi sa da subito tutto sulla storia, io mi annoierei». Mi ci rivedo molto. 

Aftermath è nato come seguito di un thriller psicologico dove la tensione era in primo piano, ma è un libro molto diverso dal suo predecessore – così diverso che ho faticato io stessa a infilarlo in una categoria. Quando ha preso vita, è andato nella direzione che ho trovato essere la migliore per dire quello che volevo raccontare, senza rimanere ancorato a un’etichetta specifica. E quando avevo scritto le prime pagine – no, non lo avevo preventivato! 

Ha alcune caratteristiche del thriller, ma ci gioca in modo diverso rispetto a qualsiasi altra cosa abbia scritto in precedenza: i personaggi sono al centro di tutto e a farti proseguire nelle pagine voglio che non sia tanto la tensione per i rischi, che ci sono e sono costanti, ma il fatto che impari a conoscere i protagonisti, che ti leghi a loro. È una storia di persone ordinarie (esattamente come chi legge) finite in un contesto straordinario: il contesto è un pretesto per parlare di loro, non l’opposto.

 

 


Seconda domanda. La protagonista, Manuela, è frutto completo della tua fantasia o ti sei ispirata a qualcuno che conosci?

È nata da un insieme di influenze. Un po’ in tutti e tre i personaggi principali – Manuela, Anna e Daniela – c’è qualcosa di mio o di persone a me care, soprattutto delle mie amiche, ma nessuna corrisponde a una sola in particolare. 

Ti rivelo una curiosità, però: c’è stata l’ispirazione di una persona che ho conosciuto nel periodo in cui scrivevo il primo libro, per l’aspetto fisico di Manuela: fare riferimento a lei mi rese più facile descriverla!

 


Terza domanda: La sua condizione, quella di convivere con un corpo estraneo in testa, ti sei basata su fatti realmente avvenuti?

Sì, ma non solo nel modo che si potrebbe pensare. Il primo è quello ovvio: ho fatto delle ricerche per capire se ci fossero precedenti, e di che tipo, per persone sopravvissute a una pistolettata alla fronte come quella che ha subito Manuela. Questo mi ha permesso di farmi un’idea di come rendere la cosa credibile, ad esempio badando a che tipo di calibro potesse essere usato, a che problematiche sarebbero emerse nel breve e nel lungo periodo.

I fatti realmente avvenuti meno ovvi che hanno dato il via all’idea, invece, sono quelli… metaforici. Quando creai Manuela e scrissi della sua sopravvivenza a un colpo alla testa, avevo da poco vissuto un capovolgimento della mia vita. Avevo dovuto cambiare molte cose all’improvviso, senza scelta: la sensazione era stata, pensai, come “chiudere gli occhi, con una pistola puntata alla testa, subire il colpo e trovarsi poi a riaprirli, inaspettatamente ancora viva. E adesso?”. Da qui nacque l’idea di trasformare questa metafora in una storia. Una cosa che mi piace molto fare è scrivere storie con al centro donne combattive, non importa quanto le probabilità di farcela siano a loro sfavore: mi piace il messaggio che manda e ciò che può ispirare. Così delineai Manuela.

I cambiamenti che affrontai, che furono anche geografici, mi portarono a sentirmi un corpo estraneo nel contesto in cui mi ero ritrovata a vivere. La storia di Manuela e del suo corpo estraneo, che a sua volta spesso la rende un corpo estraneo perfino davanti a se stessa, nacque così.

 

 


Hai mai pensato di scrivere qualcosa di diverso dal genere che scrivi?

In realtà sì, ma non mi ci sono ancora misurata con un romanzo vero e proprio! Ho scritto racconti molto diversi tra loro per alcune antologie edite, qualcuno con degli spunti folkloristici (uno, ad esempio, parlava della tradizione del mio paesino natio, Villacidro, secondo la quale si tratterebbe di una cittadina “abitata dalle streghe”), un altro dedicato al centenario della tregua di Natale della Grande Guerra, un altro ancora sulle difficoltà che provi quando emigri e scopri che a quanto pare per qualcuno sei nato sempre un po’ troppo a sud rispetto a lui.

Ora che sono un po’ più “anziana” (passami il termine) voglio vedere cosa sentirò il bisogno di scrivere in futuro. Scrivere è una scoperta, una specie di indagine su se stessi per vedere cosa hai bisogno di dirti, per me – per citare di nuovo Alice Sebold. Quando scrivi qualcosa che hai bisogno di dire con tutta se stessa, penso che alla fine quell’autenticità, quelle emozioni, arrivino anche a chi legge.

 


Cosa pensi dell’editoria italiana e soprattutto del lettore italiano?
Al di là della scrittura creativa, anche la mia professione principale è legata alla scrittura e alla lettura, anche se in un ambito completamente diverso. Sono caporedattrice e responsabile editoriale di una testata giornalistica che ha svariati milioni di lettori e a volte fa male vedere come le persone – spesso anche perché bombardate da molte informazioni che arrivano da ovunque, in un’epoca come questa – spesso trovino il leggere troppo “lento” rispetto ad altri approcci.

Trovo che sia un peccato, perché leggere è un arricchimento. Che si legga un romanzo, un saggio, un articolo giornalistico, un approfondimento o quello che è, c’è la possibilità di uscirne arricchiti, di scoprire un altro punto di vista. Leggere poco significa chiudersi, inaridirsi, solo perché la lettura non permette di correre, come altri mezzi di comunicazione più “moderni” e più immediati. Ma proprio nel non correre, nel fermarsi anziché inseguire la FOMO così popolare ai tempi dei social, si trova la possibilità di scavare, di scoprire. Spero che sempre più persone se ne accorgano, perché è triste pensare che quelle che leggono siano da considerarsi merce rara e che in Italia si leggano pochissimi libri.

 

Il mercato dell’editoria, complicato, in questo non aiuta tantissimo. Siamo un pubblico spesso esterofilo, ma sono contenta di aver visto di recente più esordienti pubblicati anche da grandi nomi. Chiaramente le case editrici devono fare delle importanti valutazioni anche sulla vendibilità di quello che propongono – nessuna è una onlus: se investi per un libro, deve incassare quanto hai investito + 1, come minimo – ma il rischio è sempre quello di assecondare troppo la pancia del lettore nazionalpopolare e di dimenticare quanto puoi dare seguendo una tua linea editoriale. Bisogna avere un equilibrio tra le due cose: capisco le uscite frivole pensate unicamente per vendere (come l’ennesimo libro dimenticabile scritto da un ghostwriter costretto a firmare a nome di un influencer o di una celebrità a caso), ma senza esagerare.

 

Ho avuto diverse esperienze nella piccola editoria (la mia prima pubblicazione risale al 2006, avevo da poco 17 anni) e mi sento di dire che, se state valutando il self publishing,  può essere un’ottima opzione – a patto di essere persone organizzate, che sanno quante importanti fasi ci sono dietro il libro, scriverlo è solo la prima. Se in passato avete lavorato con editori che vi costringevano a svolgere in autonomia quelle fasi, preoccupandosi solo di incassare dal vostro lavoro in modo passivo e senza un grammo di proattività, ho un’ottima notizia: vi troverete molto meglio con il self publishing. Tutt’altro discorso, certo, se lavorate con una realtà, anche piccola, ma che è orgogliosa di supportare i suoi autori.

 


Come e perché hai iniziato a scrivere? Sei stata spronata a farlo o nasce tutto dal desiderio di mettere su carta qualcosa che era nella tua testa?
Quando ero bambina, leggevo così tanto che le persone di tanto in tanto si domandavano se fosse normale. Ogni volta che entravamo in cartolibreria, non so come ma riuscivo a convincere mia mamma a regalarmi un nuovo libro – cose per bambini o giovanissimi, niente di particolare – e una volta rincasata non mi alzavo fino a quando non lo finivo.

Ho sempre avuto un forte amore per il libro e probabilmente questo faceva la gioia della mia maestra di italiano: a volte ci assegnava dei temi in cui ci forniva due o tre elementi e ci chiedeva di scrivere un racconto. I miei la divertivano particolarmente e ricordo che mi disse “devi proprio scrivere storie da grande”. Alla fine penso di essermi fidata di lei!

 

Certo, poi c’è il desiderio di tirare fuori delle emozioni, di scoprirsi, a cui accennavo prima. Scrivere per me è un’indagine introspettiva. Quando una mia cara amica ha finito di leggere Aftermath, prima della sua uscita, mi ha detto “Ste, quante cose avevi da tirare fuori?”. Le storie hanno il potere di lasciare qualcosa nelle persone che le vivono, ma possono lasciare tanto anche e soprattutto nel cuore di chi le ha scritte.

 


Hai già progetti futuri di cui vuoi parlarci?
Per la scrittura creativa, per ora ho in cantiere solo il progetto di un romanzo che sto ri-scrivendo in una nuova versione; essendo un’opera non ufficiale tratta da un videogioco (che è il mio ambito lavorativo quotidiano) e che lo omaggia, lo renderò disponibile da scaricare gratis sui miei canali, lo faccio per puro piacere.

E per il futuro chissà, anche Aftermath ha trovato la sua via in modi inaspettati, tra idee scartate, bozze eliminate che poi hanno assunto senso e unito le forze per creare la storia che il romanzo è oggi. Magari nascerà di nuovo uno spunto simile, magari scriverò tutt’altro. Per me l’importante è scrivere di qualcosa che i miei personaggi possano insegnarmi.

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