Estratto “Cuore indiano” di Monica Maratta

 

 

 

 

 

trama

Durante l’incendio di Jamestown, avvenuto il 19 settembre del 1676 in Virginia, per mano di alcuni coloni ribelli, capeggiati da N. Bacon, Eleanor viene rapita da un giovane indiano della tribù dei Pamunkey. Nonostante lo shock iniziale e il difficoltoso adattamento alla vita selvaggia, nasce un amore sincero tra i due giovani che tuttavia sarà costantemente ostacolato dagli odi razziali e politici dell’uomo bianco nei confronti dei nativi americani.

ESTRATTO

Jamestown (Virginia 1676)

 

Eravamo seduti davanti al camino acceso, i giovani della mia colonia e io, con lo sguardo rapito e sconcertato ad ascoltare i racconti degli anziani.

A turno, ognuno di loro narrava delle usanze barbare e demoniache nelle quali i selvaggi di quella terra, presi dal delirio di compiacere i loro dèi, si mutilavano.

«Non c’era modo di fermare quelle atrocità» cominciò il più vecchio. «Io assistetti a uno di questi macabri rituali e lo ricordo come se fosse successo pochi attimi fa.»

Posai il mio sguardo su di lui per capire di più da quelle parole, ma ciò che vidi nei suoi occhi mi sconvolse: era terrorizzato.

«Con fare meticoloso arroventavano dei grandi uncini che poi si conficcavano nel petto» continuò. «Riuscivo a sentire lo sfrigolare della carne, mentre la punta vi entrava, per uscirne qualche centimetro dopo. Come se non fosse sufficiente, i ganci erano fissati con una corda a un palo attorno cui, poi, volteggiavano fino a lacerare e danneggiare la muscolatura.»

Immaginando con la mia fantasia di ragazza quelle scene raccapriccianti, un senso profondo di terrore mi sconvolse.

Non era possibile che al mondo potessero esistere simili mostri e che il Signore Dio li avesse creati come un gesto nobile.

L’intera comunità provava ribrezzo per quel popolo selvaggio. Noi donne eravamo atterrite al solo pensiero di finire nelle loro mani, consapevoli di andare incontro a chissà quali torture e sevizie. Ai nostri occhi erano come barbari senza legge o degli idolatri dalle anime perse.

Mio padre seguiva le ideologie di mister  Bacon, un ricco allevatore auto–eletto, a capo di un consistente numero di coloni che protestavano scontenti contro le razzie degli indiani e la politica di favoritismo nei loro confronti da parte del governatore reale della Virginia: William Berkeley.

Mister Bacon e i suoi uomini erano accaniti sostenitori della superiorità dell’anima, dei mezzi e della condizione sociale dell’uomo bianco nei confronti di coloro che definivano selvaggi da civilizzare o far scomparire, qualora avessero resistito alla nobile impresa.

Queste convinzioni mi erano state inculcate fin da bambina, diventando parte di me tanto da portarmi a odiare quella gente e da non provare pena per la loro sorte, se i piani di mio padre si fossero avverati.

L’ambizione dei coloni era espropriare i pellirosse dalle loro terre. Noi eravamo il popolo eletto,  così com’era scritto nell’Antico Testamento mentre loro, gli indiani, con le loro passioni indomabili non potevano di certo definirsi una civiltà e mai avrebbero potuto progredire per divenirlo.

A quel tempo ero ancora Eleanor Patel, una giovane e attraente  ragazza di sedici anni, nata in Virginia nel 1660. Obbligata a vivere e crescere in una bellissima, seppure ostile, terra ancora in parte inesplorata, nell’insediamento denominato Jamestwon, in onore di Re Giacomo.

Giacomo I Stuart aveva deciso, tempo addietro, di supportare l’esplorazione e la colonizzazione dell’America, trovando utile quell’impresa per la sovrappopolazione che attanagliava il suo regno ma anche per portare alla definitiva conversione dei pagani indigeni alla fede anglicana.

Dall’Inghilterra i miei nonni si erano imbarcati sulle navi della Virginia Company e avevano affrontato un’infernale traversata durata oltre quattro mesi per giungere in questa terra.

Mio padre era divenuto un ricchissimo proprietario terriero ricevendo, di conseguenza, molte richieste di matrimonio per me da parte di giovani ambiziosi. Io li ritenevo dei bigotti e rispondevo con un secco rifiuto. Mi opponevo così a una società dove una donna, giacché figlia, era obbligata ad assoggettare il suo volere agli ordini paterni.

Non volevo un matrimonio combinato e triste, come quello di mia madre; a dire il vero, non desideravo un uomo sull’esempio di un genitore insensibile e autoritario, non accettando quindi l’idea di poter essere un giorno comandata da un maschio arrogante e prepotente.

***

Alla fine quel clima di odio e intolleranza verso i selvaggi aveva avuto un triste epilogo, segnando drasticamente la mia vita.

Era la notte del 19 settembre 1676, quando le mie orecchie udirono degli inquietanti frastuoni provenienti dall’esterno. All’inizio credetti  di essere in preda a orribili incubi, mi pareva addirittura di sentire urla strazianti e terrorizzate. Il cuore mi scoppiava in petto dalla paura mentre le grida diventavano sempre più forti, tanto da farmi coprire il capo con il cuscino.

Sembravo una piccola e indifesa bambina che dal terrore non riusciva a prendere una decisione sul da farsi. Solamente quando udii la voce agitata di mia madre provenire dal salone del piano di sotto, trovai il coraggio di aprire la porta della camera e affacciarmi sulle scale per capire cosa stesse succedendo.

«Carl, vi prego, non andate! Sento che potrebbe accadervi qualcosa di terribile. Non pensate alla vostra famiglia? A vostra figlia?»

«Lasciami andare, donna, e smetti di frignare. Da quando hai diritto di parola? Il dovere verso i coloni mi chiama e io non ho intenzione di tradirli.» A quel punto mio padre, con uno strattone, si liberò dalla sua presa facendola cadere sulle ginocchia, poi svelto uscì di  casa con gli altri ribelli lì presenti.

Nel vedere quella scena la rabbia cominciò a salire dalle viscere fino a riscaldarmi le guance, mentre mi precipitavo a soccorrerla.

«Madre, siete ferita?»

Nel momento in cui le porsi la mano per aiutarla ad alzarsi notai i suoi grandi occhi azzurri, così simili ai miei, diventare spenti, tristi e rassegnati.

«Tuo padre sta remando contro la politica del governatore reale. Si è alleato con mister  Bacon senza rendersi conto del pericolo in cui sta mettendo la sua famiglia; così facendo ci porterà sull’orlo del disastro. Che ne sarà di noi, Eleanor?» mi disse, aggrappandosi con forza alla manica della mia camicia da notte.

Vidi la disperazione sul suo volto cereo ma non feci in tempo a dirle una sola parola di conforto poiché un uomo, trafelato e agitato, si affacciò al portone che era rimasto spalancato.

«Fuggite subito da qui! Le case stanno bruciando e l’intera colonia è avvolta dalle fiamme!»

Strabuzzai gli occhi dallo sgomento, afferrai subito mia madre per un braccio e con lei corsi verso l’uscita.

Solo a quel punto mi resi conto della gravità della situazione. Dovunque volgessi lo sguardo, uno spettacolo terrificante e impietoso, che non lasciava adito a una minima speranza di salvezza,  si palesava minaccioso. Lingue di fuoco altissime e di un rosso vivo annunciavano che l’inferno si preparava ad accoglierci. Una coltre di fumo denso e grigio rendeva l’aria irrespirabile, tanto da costringermi a portare la mano alla bocca per non inspirare la cenere portata in giro dalla brezza che, in quella funesta sera, peggiorava le cose.

Desiderai essere sorda in quel momento per non sentire le urla addolorate della gente. Anche mia madre singhiozzava disperata; mentre avanzavamo incerte, ogni tanto sentivo le sue ginocchia cedere dalla stanchezza e le mani tremarle dall’agitazione. Tutti correvano impazziti e noncuranti di calpestarsi gli uni gli altri, in balìa di un sentimento egoistico che ti porta a salvare la pelle a ogni costo.

Sembrava d’essere in quell’inferno di cui tanto avevo sentito narrare dagli anziani del luogo. Adesso potevo vederlo con i miei stessi occhi, ne sentivo perfino l’odore acre e il suono sinistro mi penetrava fin nelle interiora.

Se qualcuno di noi morirà in questo rogo spaventoso lo farà rendendosi martire a causa dell’avventatezza e presunzione di uomini come mio padre, riflettei  rabbiosa mentre avanzavo sempre più lentamente sorreggendo con un braccio mia madre.

Con l’altra mano libera e annerita dal fumo, mi asciugavo ora le gocce di sudore che scendevano svelte in quella calura insopportabile, ora le lacrime causate dal fumo, temendo di svenire da un momento all’altro.

A un tratto qualcuno tentò di afferrarmi da dietro con prepotenza; mi voltai di scatto trattenendo il respiro, atterrita, ma a causa della foschia non riuscii a vedere altro che una figura minacciosa senza identità.

D’istinto gridai a mia madre di fuggire per mettersi in salvo e lasciai la presa, cominciando a correre con le ultime forze che mi erano rimaste.

Sentii  l’adrenalina scorrere veloce nelle vene e il cuore battermi furioso in petto. Quando notai che l’ombra mi stava seguendo, inciampai nella stoffa a brandelli della camicia da notte, battei la testa sull’impervio terreno e in un attimo persi conoscenza

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