Estratto “Come fiori tra le macerie” di Monica Maratta

 

 

 

 

 

 

tramaCorreva l’anno 1922 quando, in un piccolo paese della Ciociaria, fiancheggiato dalle verdi acque del fiume Liri e incorniciato dai monti Aurunci, la piccola Filomena perde quanto di più caro ha al mondo: i genitori. Prima l’adorata madre le viene strappata dalla grande influenza, detta anche febbre spagnola, poi il padre decide di emigrare all’estero, in cerca di fortuna, senza più fare ritorno. Filomena sarà cresciuta dagli anziani nonni, vivendo l’imponente povertà di quei tempi, la fame e l’ancora diffuso analfabetismo. Diventata una ragazza, bella e ammirata e, per sfuggire alla miseria, è costretta a delle dolorose rinunce. Va a cercare lavoro nella Capitale e, seppur disillusa dagli uomini, è disposta ancora a credere nell’amore. Vittima di pregiudizi, decide di tornare al paese natio, dove si trova ad affrontare le conseguenze della seconda guerra mondiale. La sua terra natale, sfortunata nell’essersi trovata sulla linea Gustav, troverà la forza per rinascere dalle ceneri e dal sangue dei suoi caduti per merito dell’animo forte dei sopravvissuti.

ESTRATTO

Carnevale era arrivato, portando con sé le grida festose dei bambini mascherati che, con un contagioso divertimento, trasformavano le vie romane in morbidi tappeti, colorandole con i coriandoli lanciati dalle loro piccole mani.

In quel periodo quasi tutte le rivendite erano zeppe di maschere di ogni foggia e mostruosità, di sacchetti colmi di coriandoli, di stelle filanti, di bustine con polverine per far starnutire e quant’altro potesse servire allo scherzo.

Filomena attendeva, trepidante, l’arrivo di Pasquale, seduta sul bordo di una fredda panchina, battendo il basso tacco delle scarpe sul freddo marciapiede tentando, invano, di rilassarsi.

Aveva portato con sé le babbucce che erano di un fresco cotone bianco, adatte per il mese di agosto, quando sarebbe nato il bimbo. Le aveva confezionate con le sue mani, pensando di comunicare la notizia al suo amato in quel modo tenero.

Ed ecco che lo intravide arrivare da lontano. Man mano che si avvicinava lo guardava sempre più innamorata e lo vedeva bello come il sole, alto e maestoso nella sua divisa militare con quel sorriso gagliardo di chi credeva di poter sfidare il mondo e ne sapeva sempre una più degli altri.

«Amore mio, quanto mi è sembrata lunga una settimana senza vederti» le sussurrò all’orecchio, abbracciandola.

Lei sorrise, appagata dalle sue parole. Era un vero maestro nell’arte dei complimenti e se, all’inizio, non era abituata a tutte quelle lusinghe, ormai ci aveva preso gusto.

«Hai insistito tanto per fidanzarti con una domestica che ha solo la domenica libera e adesso devi sopportare!» rispose, canzonatoria.

«Come mai non mi stringi le mani, che cosa nascondi?».

Filomena avvampò violentemente, al punto che le gote le bruciavano dal calore che emanavano:

«Ecco… io…».

L’uomo, vedendola assai tirata, s’insospettì:

«Filomena che hai?».

Lei, facendosi prendere dall’emozione, chiuse gli occhi come una bimbetta per poi aprire le mani e mostrarne il contenuto all’uomo.

Pasquale non riusciva a credere ai suoi occhi quando vide comparire quelle minuscole scarpine bianche. Il cuore sembrava mandargli scosse elettriche che dal petto s’irradiavano lungo tutto il corpo. Non era gioia ma terrore allo stato puro.

Il sorriso morì subito sulle labbra della donna, quando studiò il viso dell’amato e notò, dispiaciuta, non la felicità ma la paura e l’angoscia che quegli occhi esprimevano. Era impallidito di colpo e le mani gli tremavano vistosamente.

«Questo vuol dire che…».

Lei annuì, abbassando gli occhi con un dolore immenso che le stringeva il cuore; guardandolo in quello stato sembrava di avergli annunciato una disgrazia.

Le labbra del militare tremavano, forse più delle mani, mentre tentava di trovare qualche parola per uscire dall’imbarazzo e Filomena, per la prima volta, si accorse di quanto fosse solo un piccolo pagliaccio che andava perdendo gli atteggiamenti strafottenti nei quali di solito sguazzava.

Pasquale non accennò un sorriso né un abbraccio come Filomena aveva sognato immaginando quell’attimo, al contrario, mise le mani in tasca e prese a guardarsi attorno fingendo una maldestra indifferenza.

La giovinetta abbassò il capo, sconfitta. In quel momento una grossa lacrima scese svelta fino a bagnarle il ventre, dove cresceva, inconsapevole di non essere voluto da quello che era il padre, il suo bambino.

«Va be’ dai, una soluzione la troveremo. Conosco un medico disposto a…».

Filomena scattò in piedi come una furia. L’orgoglio di donna ferita prese il sopravvento:

«Stai zitto! Non ti vergogni neanche un po’? Dove trovi il coraggio di dire certe cose?» Cominciò a camminare su e giù facendogli il verso. «Io ti sposo… andiamo a vivere a Caserta… i miei ti vogliono conoscere… e io fessa a crederti!».

Si fermò davanti a lui puntando gli occhi dritti nei suoi senza mostrare la minima paura, come chi ha la coscienza pulita e sa di essere nel giusto mentre quelli di Pasquale, vigliacchi, non sapevano più dove guardare.

Gli concesse un attimo per dire qualcosa ma, davanti al suo mutismo, continuò:

«Dovevo dare retta a Peppino! Pane e cipolla ma felici, mi diceva. Lui sì che era sincero, tu invece, sei solo un buffone!» urlava, arrabbiata, mentre gli lanciava le babbucce sulla faccia misera. «Vai al diavolo!» concluse, voltandogli le spalle e allontanandosi in tutta fretta da quella vista che ormai la nauseava.

***

Stretta nel cappotto – l’unico che possedeva, perché voleva risparmiare quanto più poteva – Filomena non riusciva a smettere di tirar su col naso mentre continuava ad asciugare le lacrime amare che continuavano a scendere. Stentava a credere di essere stata ingannata in modo così subdolo e machiavellico. Quello che aveva creduto il suo vero amore si era rivelato più bravo di un attore del cinematografo.

Adesso lo odiava a tal punto che, appena le tornavano alla mente i momenti intimi passati con lui, sentiva una forte rabbia per aver ceduto con un uomo del genere, lei che, prima di lui, aveva dato fiducia solo a due uomini nella sua vita: nonno Mario e Peppino.

Non riusciva a smettere di piangere, nonostante la vergogna che provava per il fatto di trovarsi in strada, ma il dolore era così tanto da non trovare pace.

Mentre attraversava il ponte Garibaldi, dal quale avrebbe raggiunto via Arenula per poi finire a largo di Torre Argentina, s’imbatté in una folla di persone affacciate al parapetto di pietra per guardare verso il fiume.

Incuriosita, arrestò la sua camminata per sbirciare anche lei in quella direzione.

Alla presenza dei Carabinieri alcuni uomini tiravano fuori dalle acque del Tevere il corpo di una giovane donna.

Una vecchina, nel riconoscere quel cadavere, prese a gridare mentre scendeva le scale che, dalla strada, portavano giù al fiume e quando arrivò vicino al corpo cominciò a strapparsi i capelli:

«Me l’hanno ammazzata! Me l’hanno ammazzata! Figlia mia bella, che ti hanno fatto?».

Con la mano tremante cercava di accarezzarla ma gli uomini in uniforme, privi di cuore, si ostinavano a volerla allontanare finché, per rabbia e dolore, quella prese a buttarsi a terra e a dimenarsi come una pazza.

Filomena, con il cuore in pena e l’ansia che aumentava a ogni grido della povera donna, spostò lo sguardo in direzione del corpo della ragazza. Le faceva assai impressione quel cadavere: i lunghi capelli neri intrisi d’acqua si erano incollati al viso nascondendone i lineamenti, le gambe erano ormai rigide mentre dai piedi le scarpe penzolavano minacciando di cadere a terra da un momento all’altro.

Agli occhi di Filomena, quel cadavere sembrava già l’immagine di un fantasma, quelli dei tetri racconti d’infanzia che ascoltava al paese dalla bocca degli altri bambini, quando, nelle sere d’estate, volevano provare il gusto del brivido.

D’un tratto si avvicinò un ragazzo che sembrava avere più o meno la sua età.

Appena l’uomo vide il cadavere e capì cos’era successo si portò le mani alla testa:

«Oh mio Dio! Non può essere vero».

Filomena, capendo che quell’uomo conosceva la povera ragazza, non riuscì a trattenere la curiosità:

«Scusate se mi permetto, voi sapete chi è quella donna?».

«Eccome! Quella è Annarella, la mia vicina di casa. Siamo cresciuti insieme».

A Filomena si strinse il cuore per quella povera ragazza e ancor di più per la madre che stava piangendo una figlia suicida. Era sempre stata molto emotiva e sensibile a tal punto che i suoi occhi erano di nuovo lucidi, pronti per riprendere il pianto:

«Poverina, chissà quali problemi avrà avuto per arrivare a un gesto così estremo».

L’uomo, nel sentire quelle parole, serrò le mani a pugno che alzò al cielo come a voler lanciare una maledizione:

«Il suo problema porta il nome di un uomo, un mascalzone! Prima l’ha ingannata per averla e poi l’ha abbandonata come fosse stata una scarpa vecchia».

Filomena sentì il suo respiro farsi irregolare. Se prima provava pena per quella donna, ora trovava spazio, dentro di lei, anche una forte empatia per aver vissuto la sua stessa esperienza.

D’istinto si accarezzò il ventre come per rassicurare il suo bambino del fatto che sarebbe stata più forte di quella malcapitata.

L’uomo prese a sfogarsi con lei, tanto era forte il dolore che sentiva:

«Annarella aveva provato a reagire, ma la gente è cattiva, sapete? Appena usciva dalla porta di casa le sparlavano alle spalle. Diceva, convinta, che nessuno se la sarebbe più sposata perché tutti l’avevano vista amoreggiare con il militare forestiero».

Filomena si sentì mancare. Sapeva che Roma era piena di militari che venivano da fuori eppure, nel cuore, avvertiva forte un presentimento. Stava quasi per chiederne il nome al ragazzo quando questo fece per salutarla:

«Scusatemi, ma vado a confortare la povera madre, è vedova e da oggi non ha più nessuno al mondo».

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