Doppia recensione “L’orfano di Auschwitz” di Henry Oster e Dexter Ford

 

 

 

La storia vera di un ragazzo sopravvissuto da solo all’inferno dei campi di concentramento. Germania, 1933: Henry Oster ha solo cinque anni quando Adolf Hitler prende il potere. Ancora nessuno immagina gli orrori che verranno, ma bastano pochi anni perché la realtà si riveli più terribile di qualsiasi incubo. Costretti a lasciare la loro casa di Colonia, Henry e i suoi genitori vengono deportati prima nel ghetto di Lódź, in Polonia, e poi, alla morte del padre, nel campo di sterminio di Auschwitz. Qui, dopo essere stato separato dalla madre, Henry viene assegnato al lavoro nelle stalle: deve occuparsi dei cavalli del campo ogni giorno, dall’alba al tramonto. Un lavoro massacrante, ma che finisce per rappresentare un’ancora di salvezza. Consapevole che la sua sopravvivenza dipende da quanto riuscirà a rendersi indispensabile, Henry si getta nel lavoro con una dedizione disperata, cercando di resistere al freddo, alla fame, alla fatica e, soprattutto, alla crudeltà dei soldati nazisti…

Tanti sono i libri che trattano il tema dell’Olocausto, pochi purtroppo i sopravvissuti, ancora meno i bimbi che uscirono vivi da quell’inferno.

Un inferno in terra che, ahimè, l’uomo è riuscito a creare sfidando Dio, facendo invidia pure a Satana.

Inconcepibile la situazione degli stenti, la fame e il  freddo che hanno subito quelle persone, la morte costantemente sotto i loro occhi, bimbi senza genitori che sognavano prati verdi in cui giocare, il sole in faccia, pane morbido e qualche caramella.

Speranze che li hanno tenuti in vita, sogni che al risveglio venivano infranti e solo il ricordo di quel benessere irreale riusciva ad aleggiare nella testa.

Henry è uno di quei pochi bimbi, uno dei molti reclusi, uno dei pochi che sono tornati dal campo.

Ho letto il libro prima di dormire, la malinconia che ti travolge, il dolore e la tristezza che ti annientano, ma anche la forza che ti sprona, speranze che ti tengono in vita.

Testimonianza diretta e reale, scritto in prima persona  da Henry che ci racconta tutta la sua vita dalla libertà alla reclusione, dall’essere figlio a diventare un orfano, solo al mondo incapace di ricominciare.
Perché quando ti tolgono l’umanità e l’identità diventando un semplice numero in uno schedario, ricominciare non è facile.

Henry era l’ultimo superstite ancora in vita dei 2011 ebrei vittime dei rastrellamenti nazisti e deportati da Colonia.

L’odio genera altro odio, la tolleranza è la chiave del perdono, perdonare è il primo passo per un mondo migliore.

Anna

 

 

Ci si può perdere fra i libri scritti sull’Olocausto, non ricordo nemmeno più io  quanti ne possa aver letti. Ognuno con un punto di vista differente: stesso inferno ma con una sfumatura di orrore diversa.
E questo romanzo è stato una sorpresa perché nonostante l’argomento sia di uno spessore emotivo notevole, è stato scritto in modo così brillante (passatemi il termine che in questo contesto sembrerà improprio), che ha reso la lettura scorrevolissima.

Forse perché il racconto arriva dalla memoria di  un ragazzino, con quella dose di incoscienza tipica dell’età, o forse perché la storia è stata raccontata da chi ce l’ha fatta ed è riuscito a scendere a patti col dolore, la fame e gli stenti, che hanno sviscerato il suo ingegno nel riuscire a sopravvivere nel lager.

 

“Il sollievo di chi è sopravvissuto, e il senso di colpa del sopravvissuto”

 

Questa è la storia di uno dei ventitré sopravvissuti alle deportazioni dei 2011 ebrei di Colonia.

 

“Molto tempo fa ero un bambino tedesco di cinque anni. Heinz Adolf Oster

Ero solo un vivace ragazzino tedesco, con una bella famiglia, in una animata città tedesca.”

 

“Secondo gli storici, i primi ebrei a stabilirsi in Germania arrivarono probabilmente da Roma. La prima comunità ebraica documentata in Germania risale al 321 d.C. Dunque,quando Adolf Hitler (austriaco) e i suoi compari nazisti decisero che gli ebrei come me, mia madre e mio padre non erano adatti a vivere nella ‘sua’ Germania, noi eravamo lì da oltre 1600 anni.”

Ci si chiede spesso come mai un intero popolo sia caduto tanto facilmente nella trappola nazista, la risposta è semplice.

 

“Eravamo anche tedeschi, e dunque programmati a conformarci.[…] Se il governo diceva che dovevamo fare una cosa, noi la facevamo”

 

E quindi a queste persone, in questo frangente cittadini tedeschi, da un momento all’altro è stato portato via il lavoro, la cittadinanza, gli averi e persino la casa; in seguito la dignità, l’umanità, gli affetti e la vita stessa.

 

Heinz è stato uno dei tanti ragazzini la cui famiglia è stata polverizzata nei forni crematori e che ha dovuto imparare a cavarsela da solo.
Non ci sono lacrime ma una determinazione disperata e lucida, un’esposizione dei fatti chirurgica, senza troppi sentimentalismi, non c’erano nemmeno le forze per quelli.

La fortuna nella sfortuna che ha avuto Heinz è stata quella di aver spesso avuto occupazioni che lo hanno portato a mantenere la mente attiva e trovando un minimo scopo nella vita, oltre alla possibilità di rubacchiare un po’ di cibo extra, a differenza degli altri lasciati a vegetare in attesa della morte.

Il suo essere tedesco, poi, ha inevitabilmente “smosso” un briciolo di compassione nell’animo di alcuni suoi carcerieri.

 

Il disgusto verso le politiche naziste viene acuito ulteriormente per gli inganni e gli stratagemmi che utilizzavano per far collaborare la gente per

 

“arginare il panico tra i prigionieri. Loro erano pochi, noi migliaia. Loro avevano i fucili, ma sapevano che noi avevamo i numeri. Quindi facevano il possibile per manipolarci”

 

“Quando si è impauriti, esausti e aggrediti, il cervello tende semplicemente a spegnersi, per entrare in modalità sopravvivenza. E su questo contavano i nazisti”

 

 

Convivere con la morte, guardandola in ogni sua espressione, che fosse un’esecuzione di massa, singola o per mero intrattenimento, crea una dissociazione in chi ne assiste ma anche a chi l’ha inferta. Puoi impazzire o chiuderla in un cassetto allontanandola da te.

Quando i superstiti sono stati liberati dagli alleati si sono trovati in condizioni fisiche e psicologiche devastanti, oltre all’incertezza di non sapere cosa fare e dove andare, senza più case né famiglie. Qualcuno nel tempo ha potuto ricongiungersi con parenti lontani, altri chissà.

 

“per quanto possa sembrare mostruoso, casa mia erano state Łódź , poi Auschwitz e Buchenwald”

“A questo mondo avevo soltanto la mia ciotola, una uniforme macchiata e sformata e il mio corpo ossuto e gracile”

 

La lettura di questa testimonianza è stata l’ennesima ginocchiata nello stomaco, ma è assolutamente consigliata.

Spesso si pensa che questo ignobile pensiero di “purificare la società dai non conformi” fosse solo limitato all’ambito del nazismo europeo, ma ho scoperto durante la lettura che il movimento pro eugenetica prese piede in diversi paesi, era diventata addirittura una legge federale negli Usa: una legge della Virginia consentiva di sterilizzare persone giudicate dallo stato “tarde”. Quindi l’orrore di quell’ideologia aveva contaminato anche a livelli superiori, nazioni considerate lo stendardo della democrazia e libertà.

 

Per questo il ‘giorno della memoria’ è così importante: bisogna ricordare, raccontare, sentirci piccoli davanti ad un orrore di portata così vasta, ma altrettanto forti da formare e portare avanti una coscienza comune che non permetta più che un inferno simile possa ripetersi. Mai più.

Anna

 

Loading

La nostra votazione
Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *