Recensione “La libraia di Auschwitz” di Dita Kraus

 

 

A soli tredici anni Dita viene deportata ad Auschwitz insieme alla madre e rinchiusa nel settore denominato Campo per famiglie (tenuto in piedi dalle SS per dimostrare al resto del mondo che quello non fosse un campo di sterminio): quello che conteneva il Blocco 31, supervisionato dal famigerato “Angelo della morte”, il dottor Mengele. Qui Dita accetta di prendersi cura di alcuni libri contrabbandati dai prigionieri. Si tratta di un incarico pericoloso, perché gli aguzzini delle SS non esiterebbero a punirla duramente, una volta scoperta. Dita descrive con parole di una straordinaria forza e senza mezzi termini le condizioni dei campi di concentramento, i soprusi, la paura e le prevaricazioni a cui erano sottoposti tutti i giorni gli internati. Racconta di come decise di diventare la custode di pochi preziosissimi libri: uno straordinario simbolo di speranza, nel momento più buio dell’umanità. Bellissime e commoventi, infine, le pagine sulla liberazione dei campi e del suo incontro casuale con Otto B Kraus, divenuto suo marito dopo la guerra. Parte della storia di Dita è stata raccontata in forma romanzata nel bestseller internazionale “La biblioteca più piccola del mondo”, di Antonio Iturbe, ma finalmente possiamo conoscerla per intero, dalla sua vera voce. La vera storia di Dita Kraus, la giovanissima bibliotecaria di Auschwitz, diventata un simbolo della ribellione, finalmente raccontata da lei stessa.

“Una vita in pausa La mia non è una vera vita. E’ qualcosa che avviene prima che abbia inizio la vita vera, una sorta di prefazione agli eventi narrati… Non sono mai nel qui e nell’ora, e sento di non riuscire a godere del presente.”

Un libro che è un documentario, un diario della vita dell’autrice, tra ghetti e deportazione, il prima e soprattutto, il dopo i campi di concentramento.

Mi ha emozionato molto conoscere le difficoltà nell’ambientarsi dopo aver subito le più terribili torture esistenti al mondo.

Aver affrontato la morte uscendo “vincenti” e dover affrontare la vita comune, fatta di pranzi, di lavoro, di vita e famiglia.

Non è così semplice.

Vedersi tolta l’umanità, essere considerati per molti anni un numero 73305, ecco che il vero nome risorge dalle ceneri e il lavoro servirà non più per la sopravvivenza, ma per l’indipendenza e sussistenza.

Avere un’altra visione della vita e riconsiderare la morte.

Un libro che lascia a bocca aperta i lettori e non solo per le atrocità commesse nei campi ma anche, e soprattutto, per quella impotenza e senso di smarrimento nella realtà comune.

La partenza ai treni per la deportazione nei campi di lavoro “Quello fu il singolo momento più significativo in cui la mia vita fu messa in pausa”, una lotta continua per riuscire a rimanere a galla in quelle nefandezze umane, atti di cannibalismo che lasceranno il segno, morte e sporcizia, orrore e pazzia.

“Non sentivamo più la fame. Al suo posto avvertivo una sorta di assenza di gravità.”

Il più grande traguardo? Tornare al passo con la vita… vivere il presente senza sognare, desiderare o semplicemente pensare al futuro.

ELEONORA

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