Recensione “Il sole d’agosto sopra la Rambla” di Damiano D. Ghiglino

 

 

 

 

 

 

 

Sono i “giovani tramonti”, fragili e tenaci, ragazzi gay dai cuori spezzati impressi indelebilmente sullo sfondo di una Barcellona sotterranea. Ognuno alla ricerca di qualcosa e in fuga da qualcosa, ognuno con le proprie paure e i propri segreti. 
Tra prostituzione e dipendenze, locali malfamati e preti pedofili, nostalgie e desideri brucianti, passioni e tenerezze passeggere, in attesa di quell’evento imprevedibile che cambierà per sempre le loro esistenze, cercheranno di fermare il tempo per vivere unicamente il presente ed attendere l’amore in quella dimensione, così sfuggente ed ambigua, dell’istante stesso.
Eppure quando un sentimento forte e sconosciuto si farà strada nei cuori dei diciottenni David e Borja, i più giovani del gruppo, la diffidenza e lo stupore lasceranno progressivamente spazio ad una coscienza sempre più profonda e ostinata.
Romantico e spietato al tempo stesso, questo romanzo rappresenta il ritratto psicologico di una generazione smarrita alla quale il futuro si presenta come imperscrutabile.

 

Quando ho iniziato a leggere questo romanzo mi aspettavo qualcosa di completamente diverso. Non so esattamente cosa, ma già dalle prime pagine ho compreso immediatamente che quello che avevo tra le mani era qualcosa di totalmente anti convenzionale, qualcosa di un’intensità tale che sfuggiva alla mia comprensione più io tentavo di afferrarla.

Se vi aspettate di leggere il solito romance, avete decisamente sbagliato romanzo. 

Il sole d’agosto sopra la Rambla è molto più che un romanzo di formazione o un romanzo psicologico, è la quinta essenza più pura dell’animo umano, delle sue paure più profonde, dei risvolti incomprensibili e inspiegabili di un futuro che non lascia scampo.

L’autore si rivela un maestro nell’uso del narratore onnisciente, elevandolo ad un ruolo superiore, come un dio: il narratore conosce ogni cosa, passato, presente e futuro, si insinua nei pensieri dei personaggi e ce ne racconta le elucubrazioni, come se avesse aperto in due le loro anime e stesse disperatamente cercando di dirci “Guardate, è questo che siamo. Guardate, siamo tutti noi”. E noi, i lettori, non possiamo fare altro che guardare.

La narrazione non è lineare, ma ha la forma di una rela, mentre le vite di David, Borja, Antonio, Miguel e Fernando, e ancora Julio, Emilio, Carlos, il padre di Borja e la madre di David si intrecciano, si annodato e quando si separando si strappano con violenza. Quella che Damiano Ghiglino ci racconta non sono le storie di David e Borja e Antonio e Miguel e Fernando, ma una unica storia, fatta di diversi tempi, luoghi e persone; un unico quadro talmente ampio che solo osservandolo da lontano lo puoi ammirare nella sua interezza.

La storia è raccontata con violenta bellezza, attraverso gli occhi di due ragazzi giovanissimi che potrebbero avere il mondo e che invece non hanno niente, che osservano la vita scorrere loro accanto sotto il sole accecante della Spagna.

E’ un romanzo bicolore: da un lato c’è il giallo, del sole, dell’estate, della giovinezza, del tramonto che ha fatto incontrare Emilio e Miguel e che li ha poi condotti su due sentieri completamente diversi, il colore dell’abbondanza che è insolente e sprezzante, della quale credi di poter godere per sempre ma che puoi perdere in un soffio di vento, il colore di un caldo opprimente che ti immobilizza e infiacchisce, mentre anche il tempo stesso pare fermarsi. Dall’altro lato abbiamo il nero, della paura, della disperazione e della depressione, della violenza fisica o mentale. Una nera oscurità che opprime e che schiaccia, che arriva strisciando quando meno te lo aspetti e che non ti lascia andare fino a che non lo decide lei. Un’oscurità che sa di malattia, e che allunga le sue mani in molteplici modi sulle anime che popolano questa storia: da Antonio al suo epilogo, al padre di Borja, a Emilio e anche a Fernando. Sebbene non particolarmente rilevanti, le scene in cui Fernando era presente erano per me di una poesia e un’intensità estrema. Un ragazzo gay, grassoccio, in guerra contro se stesso, intrappolato in un loop esistenziale che si divide tra il cibo, per il quale prova un attaccamento quasi erotico, la masturbazione, e il bere nei locali indossando abiti di taglio femminile. Un personaggio che è la personificazione del disagio, del non sapere dove condurre sé stesso e la propria vita, indolente e insensibile a qualsiasi cosa, persino alla morte. Le altre vite del romanzo sono vite spezzate, come Emilio, Antonio o sotto certi punti di vista Borja e Miguel, le cui esperienze di vita sono state le cause della loro crescita interiore troppo rapida, o destinate a frantumarsi, come Julio o Carlos, che ad un certo punto sentono che qualcosa dentro di loro si è spezzato. Sono anime che ad un certo punto hanno dovuto affrontare le conseguenze delle proprie azioni, nel bene e nel male, senza poter avere controllo alcuno, ma semplicemente in balia di quella nera oscurità che è una domanda senza risposta sul senso dell’esistenza.

Questo romanzo è più che un romanzo, in poche – 127 – pagine è un viaggio all’interno di un nuovo e terrificante mondo, nel quale i giovani fanno fatica a trovare il proprio posto, e dal quale si sentono esclusi. Un viaggio crudo, profetico, ma terribilmente reale.

Un viaggio, una lettura, che conquista e non lascia scampo.

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