Recensione “Il sabotatore di Auschwitz” di Colin Rushton

 

 

 

Nel 1942, il giovane soldato britannico Arthur Dodd venne fatto prigioniero dall’esercito tedesco e fu trasportato a Oświęcim, nell’alta Slesia polacca. I tedeschi diedero a quel luogo un altro nome, oggi sinonimo delle ore più buie dell’umanità: lo chiamarono Auschwitz. Costretto a lavorare per la fabbrica I.G.Farben – che impiegava anche manodopera ebrea fornita dal campo di concentramento –, obbligato ad assistere quotidianamente agli orrori che annullavano la volontà e l’umanità di chi li subiva e di chi ne era testimone, Arthur pensava che la sua vita sarebbe finita ad Auschwitz. Deciso, tuttavia, ad assolvere fino in fondo il suo dovere di soldato e di buon cristiano, con i suoi compagni di prigionia sabotò il lavoro industriale nazista, rischiò la vita per alleviare le sofferenze dei prigionieri ebrei e aiutò un gruppo di partigiani polacchi a pianificare un’evasione di massa. Questa scioccante storia vera getta nuova luce sulle operazioni del campo, rivela la gerarchia dei trattamenti degli internati da parte delle SS e presenta la storia, in gran parte sconosciuta, dei prigionieri di guerra militari detenuti ad Auschwitz.

Nel 1943 Arthur venne catturato e spedito in una serie di campi per prigionieri di guerra, prima di venir internato nel più famoso campo di concentramento: Auschwitz, le porte dell’inferno si stavano spalancando per lui.

Una storia vera quella trascritta in questo romanzo, una storia che viene alla luce solo recentemente, in quanto il protagonista ha trovato sempre molto difficile descrivere gli orrori visti, sofferti e vissuti.

Da soldato semplice al numero 182469, due anni di sofferenza e due anni in cui con tutte le sue forze e, grazie all’aiuto di altri prigionieri, sabotavano il lavoro in fabbrica tedesco e nel loro possibile aiutavano gli ebrei, grande parte lesa del conflitto.

Una lettura travolgente, tra scritti ufficiali, ricordi del protagonista, vita vissuta e sopravvissuta all’interno di quel filo spinato. Il dopo, l’unica incertezza, ritornare a vivere e riuscire a raccontare di quegli stenti vissuti nel campo, da sessantasei chili a quarantadue all’arrivo degli Yankee.

Alla fine del romanzo, anche alcune testimonianze lasciate da altri soldati prigionieri come Douglas Bod, John Green, Denis Avey e molti altri.

Prigionieri che hanno dato voce a quella parte di storia negata fino alla fine, condannata “in maniera lieve” per tutti quei crimini di guerra, sofferenze inflitte ad un popolo senza patria.

Raro pezzo di documentario, un romanzo che oltre alla sofferenza sa di verità.

ELEONORA

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