Recensione “Il mare ad un’ora di tram” di Gianluca Marino

È l’ultimo caldo del millennio in un paesino calabrese sul litorale tirrenico. Il consueto luogo di vacanza per un gruppo di diciottenni napoletani in bilico tra il calore dei ricordi e la perenne ricerca di emozioni nuove. La solita estate, insomma, fatta di tuffi abborracciati e serenate, di pedalate e bagni a mezzanotte, di sbronze e surreali sfide col pallone. Di laconiche, frivole storie d’amore. Poi qualcosa di imprevisto succede. E al culmine di un susseguirsi di minacce, stranezze e reiterate discussioni, Livio, il più tormentato della compagnia, scompare. Comincia così una raffazzonata ricerca dell’amico perduto tra l’asfalto infuocato della strada statale e i cunicoli del borgo antico, tra improbabili mezzi di fortuna e curiosi personaggi che appaiono e scompaiono giusto il tempo di contribuire a scompigliare la situazione. Come Riccardo Sales: un vecchio che parla poco, ma sembra avere molto, molto da dire.

È una grande delusione quando un libro ti affascina per la trama e poi ti delude per come la stessa viene sviluppata. È quello che è accaduto con “Il mare ad un’ora di tram”, romanzo dal titolo fortemente evocativo, che quasi già ti fa immergere in una storia di formazione al profumo di salsedine.

Il libro di Gianluca Marino parte bene, parte alla grande, con un inizio lineare che già dà l’idea delle competenze dell’autore con la penna fra le mani. Ma la bravura nello scrivere, la padronanza di un registro accurato e pieno di sfumature, non sono sufficienti a creare una storia avvincente.

Dal momento che è quanto di più odioso scrivere recensioni non positive senza motivare o appellandosi a un mero gusto soggettivo, è importante andare ad analizzare gli aspetti che meno hanno funzionato in questo romanzo.

Per cominciare, la trama de “Il mare ad un’ora di tram”. L’architettura narrativa risulta, in maniera abbastanza chiara, disomogenea. A tratti, il libro pare un susseguirsi di osservazioni del protagonista sul suo gruppo di amici e sulle persone che lo circondano. Sul finale, invece, scopriamo che, a tutti gli effetti, una storia il romanzo l’aveva pure ed era – più o meno – collegata a un caso criminale. Il fatto è che, nel suo perdersi tra digressioni e vicende non necessarie al fine del dipanarsi della trama, l’impressione che si ha è di non sapere, in definitiva, di cosa davvero parli il libro. In altre parole, quale sia il nucleo della storia.

Ritengo, inoltre, evidente una confusione anche nel punto di vista della storia e nella voce narrante. Pur essendo un libro scritto in prima persona, infatti, nella descrizione degli eventi subentrano più volte giudizi esterni che rompono l’unicità del punto di vista (che dovrebbe essere mantenuta sempre quando si ha una narrazione in prima persona). Per di più, il tipo di linguaggio scelto sembra, in molte parti, innaturale per il personaggio a cui viene attribuito.

Parlando di stile di scrittura, Il mare ad un’ora di tram ha un grosso difetto: è sovrabbondante. C’è un’aggettivazione enfatizzata, spesso ridondante, che poco ha a che vedere coi canoni della narrativa contemporanea. L’autore, in definitiva, sembra innamorato della sua magistrale proprietà di linguaggio e preferisce descrivere tutto e tutto più volte, ricorrendo, tuttavia, a volte, anche a eufemismi e giri di parole che non fanno altro che rendere indiretta la narrazione e creare distanza fra il lettore e gli eventi raccontati.

A dispetto degli errori tecnici sopra evidenziati, sento comunque che sia necessario fare un apprezzamento all’autore per l’ottimo linguaggio. Si confida che la conoscenza della lingua e l’abilità dimostrata nella sintassi siano strumenti utili nella sua carriera, per produrre libri che ricadano in meno errori tecnici e che non perdano di vista l’obiettivo primario di un romanzo, ovvero quello di raccontare una storia e renderla la vera protagonista del prodotto letterario fatto e finito.

 

Giovanni

 

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