Recensione “Ho visto un uomo a pezzi” di Ilaria Macchia

 

 

 

Sette piccole esplosioni, sette pezzi della vita di una donna, sette racconti. La protagonista di queste storie si chiama Irene. Di lei sappiamo che si sente sempre nuda di fronte agli sguardi della gente, che ha un corpo che sembra perfetto ma se ne vergogna, gambe splendide sulle quali spesso barcolla, e una tendenza a scappare – di casa, dall’amore, da tutti i legami – ma poi, sempre, a tornare.

Questi racconti fotografano i momenti in cui la sua vita ha subìto uno strappo, in cui è accaduto qualcosa che ha determinato un’inversione di rotta: la volta che è andata al funerale di una sconosciuta, la volta che si è innamorata di un ragazzo che le è andato a sbattere addosso in un vicolo di Lecce, la volta che si è rifugiata con suo figlio in un armadio per nascondersi dai fantasmi, la volta che sua sorella l’ha battuta in una gara di nuoto, la volta che i suoi genitori le sono sembrati bambini, e le mille volte che è tornata da Piero, che ha occhi neri, mani perfette, una moglie, un figlio, ed è l’unico uomo che Irene non riesce a lasciare.

La prima prova letteraria di Ilaria Macchia è una costellazione di congegni narrativi esatti, che – legati tra loro da fili invisibili, spazi duttili che invitano a essere colmati con l’immaginazione – costruiscono il ritratto di una donna complessa: inquieta ma spaventatissima, pungente ma bellissima, come le meduse che danno il titolo all’ultimo racconto. E che, proprio come le meduse, nuota “in una direzione e nell’altra, senza sapere dove andare”: un personaggio capace di parlare a ognuno di noi. La materia prima di cui è fatta la sua storia è una scrittura essenziale, sfacciata, a tratti violenta, che esplora l’imprevisto nascosto nel quotidiano, ci disarma con leggere virate verso l’assurdo, si fa largo con prepotenza nel nostro animo e, guardandoci in faccia, sembra chiederci conto di chi siamo.

 

Leggere questo libro è stato come guardare un film di nascosto. Ogni libro che si legge scorre nella nostra testa, ogni parola è una scena, un’immagine che si concretizza nella nostra mente. Però questo libro è un po’ diverso. Il film che ho visto l’ho visto di nascosto, come se un velo nero mi fosse sceso davanti agli occhi e in questo velo ci fossero sette piccole fessure. Ecco come ho visto la vita di Irene, le sette storie erano sette piccole fessure sulla sua vita.

Una vita strana di certo, complessa e anomala, la vita di una persona persa in se stessa, una carenza di spirito forse, un mancanza di volontà. Irene ha qualcosa di anomalo in sé, un qualcosa che l’ha portata a vivere una vita a metà. Perché si percepisce questo. Se la vita è una fiamma, questa genera calore, luce, fumo. Consuma la cera della candela o brucia la legna che l’alimenta. Irene non ha una vera e propria fiamma, ha una scintilla, una scintilla che cerca di accendersi ma in un mondo umido e privo di vita. Così tutto resta buio, oscuro, freddo. Incapace persino di autodistruggersi.

C’è da chiedersi se Irene provi qualcosa veramente, qualcosa di positivo. La sua passione mi sembra spenta, una dipendenza, non un reale desiderio. Una voglia normale in un contesto insignificante. I piccoli squarci di vita mi fanno credere questo.

Non ho trovato la lettura né fastidiosa né esaltante, solo insipida ma non nel senso più brutto che ci sia. Come la vita della protagonista. È come se tutto si trovasse in uno strano limbo grigio. A qualcuno sono certo che piacerà questo libro. Personalmente io non lo metterei nella mia lista dei preferiti.

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