Doppia recensione “La ninnananna di Auschwitz” di Mario Escobar

 

 

 

 

In una mattina come tante del 1943, Helene Hannemann sta accompagnando i suoi figli a scuola, quando la polizia tedesca la intercetta e la costringe a tornare sui propri passi. Prende corpo così la sua paura più oscura: gli agenti delle ss intendono infatti prelevare i suoi cinque bambini e suo marito, di etnia rom. Anche se è tedesca, Helene si rifiuta di essere separata dalla famiglia e decide di affrontare insieme ai suoi cari un destino che non avrebbe potuto immaginare nemmeno negli incubi più spaventosi. Dopo una terribile marcia attraverso il continente, Helene e la sua famiglia arrivano ad Auschwitz e si ritrovano a essere diretti testimoni degli orrori nel campo di concentramento nazista. Suo marito Johann viene portato via, lei e i figli invece vengono assegnati alla sezione del campo destinata ai rom. Helene, in quanto tedesca e infermiera, ha però un trattamento privilegiato e lo spietato dottor Mengele le propone di gestire un asilo per i piccoli prigionieri. Fisicamente ed emotivamente provata, Helene diventerà per loro un rifugio: con la sua vita darà una straordinaria prova di gentilezza e altruismo in grado di illuminare il momento più buio della storia dell’umanità.

Approcciarsi con un libro del genere è abbastanza difficile e complicato; leggere di storie vere, vissute e cruente, ha sempre qualche ripercussione sul tuo stato d’animo.

Chiudi il libro e rimani inerme, immobile di fronte a tali atrocità, e non fai altro che alimentare i “perchè della storia”.

Immaginavo dal titolo che si parlasse di bimbi, quindi diciamo che mi ero preparata alla lettura, forse volevo crogiolarmi in quel dolore, in quella sofferenza per renderla un po’ più mia e sollevare i protagonisti da quell’agonia.

Se solo fosse vero.

Ti imbatti in questo romanzo già con il magone, il fiato corto, e il cuore in stand-by, le emozioni vissute sono troppe, rancore, rabbia, dolore, amore, affetto, tristezza e tutte portate all’estremo.

Helene e la sua famiglia deportati nei campi di concentramento, solo per il disegno di “disinfestazione” di Hitler, lui e la razza ariana, eppure lei è ariana, ma soprattutto è madre di piccoli zingari, e se ad una madre si ponesse la domanda “la tua vita o quella dei tuoi figli?” penso che la riposta di ogni madre sarebbe la scelta fatta di Helene.

“Accompagna” così i figli in questo viaggio e permanenza nel campo di concentramento di Auschwitz, “Quel posto era una stalla puzzolente, in cui nemmeno gli animali si sarebbero azzardati a dormire. E questo eravamo per i nazisti, bestie selvatiche.”

Questo è il primo pensiero espresso dalla protagonista alla vista delle baracche e della sua nuova dimora dove, quando la realtà ti dilania l’anima, l’unica cosa che ti resta di tentare è evadere in un’altra dimensione e sognare, almeno i sogni all’inizio non l’avrebbero toccati.

Una madre che con tutti i modi e mezzi a sua disposizione protegge i suoi bimbi e oltre.

Incaricata come direttrice del nuovo asilo di Auschwitz, si avventura in questa nuova veste cercando di portare colore, allegria e coraggio ai bimbi del campo.

“Ormai avevo una sacra missione: salvare tutti i bimbi rom di Birkenau, ma soprattutto restituire loro la voglia di vivere in mezzo a quello scenario di morte e devastazione”.

Portare un raggio di speranza nell’oscurità più fitta.

Le parole scandite ed esposte nel libro riescono a rendere lo scenario, anche se i nostri occhi negano l’evidenza, riescono a portarti dentro la storia, a cantare con quella voce melodiosa le dolci parole di una ninnananna.

“La morte mi sembrava un regalo del cielo” continuare a vivere per loro, per i suoi figli, per quei bimbi protagonisti di solo orrore, era la sua missione.

Continuare a vivere in quel campo dove ti veniva negato il diritto di individualità ed intimità, avere paura delle novità, delle notizie, perchè hanno sempre delle conseguenze.

“L’amore non esisteva ad Auschwitz e, se riusciva a sbocciare tra le sue strade povere ed infette, subito marciva, bruciato dall’odio perenne del campo”.

Una sorta di diario, una raccolta di memorie, portata alla luce con questo splendido romanzo, dove il cuore non controllerà più le infinite emozioni, dove il cervello si rifiuta di capire, e gli occhi vorrebbero la cecità, un romanzo che ti fa viaggiare in posti dimenticati da Dio con un bagaglio di emozioni troppo pesante.

“Quel giorno la speranza della morte aveva un dolce suono di eternità. Di lì a poche ore saremmo stati liberi per sempre.”

 

Ancora oggi leggo post allucinanti di chi, l’olocausto lo nega.

Leggo di complotti portati avanti dai centri del potere e di gente che minimizza l’orrore creato nei secoli e sfociato nei campi di sterminio. Non sono cosi tanti i numeri, ripetono convinti.

Beh per me anche solo se fossero solo dieci  i morti, perché appartenenti alla razza sbagliata, sarebbero troppi.

Oggi, con tutta la tecnologia, noi paesi civili non siamo altro che bestie quando nascondiamo sotto il tappeto i nostri atroci errori.

E non è la scelta del fidanzato sbagliato, del lavoro imperfetto, del vestito poco adatto all’occasione.

E’ l’errore di non considerare un fratello, un essere umano fatto di carne, DNA e ossa, con il tuo stesso sangue, con le stesse tue emozioni, cosi diverso, cosi errore da dover essere soppresso.

Ecco.

Chiunque appoggi una tale aberrazione, non è più umano.

E’ tanto altro, ma non umano.

Neanche bestia, perché le bestie proteggono, si difendono e si coordinano.

Noi no.

Siamo cosi vicini alla scienza eppure cosi distanti dal cuore.

Non voglio sembrare politica.

Ma leggere la ninna nanna mi ha procurato un dolore dentro, sfociato da lacrime.

E non da rabbia, ma ribellione.

Io non voglio che accada di nuovo.

Non voglio che un idea malsana attecchisca in questa terra desolata.

Non voglio più che il bambino nel vento, la canzone perfetta dei Nomadi, sia di nuovo realtà.

Non voglio divisioni, né razze, ne etnie.

Voglio solo persone, belle nella loro diversità.

Unite a comporre un mosaico.

E non ho intenzione più di sentire giovani che buttano il cuore in pasto alle ideologie, spiegandomi con occhi vacui, il loro pensiero sull’olocausto.

Se la sono cercata, guarda cosa hanno fatto.

Lo hanno fatto per creare il loro stato.

Parli di morti!

Parli di bambini innocenti a cui non fregava un benamato cazzo di essere Israele o Germania, o Polonia o zingari.

Volevano solo giochi, ninna nanne, sogni e dolci carezze!

Se non riuscite a avvertire il dolore inflitto a ogni persona, in qualunque parte del mondo, con qualsiasi pelle, con qualsiasi nome, allora avrete fallito come esseri umani.

E non c’è salvezza per chi rinnega la propria anima, per chi, coni l potere con la sensazione di sentirsi forte usa l’odio per rivendicare.

Auschwitz è successo.

Lo abbiamo permesso noi costruendo secoli e secoli di fandonie, di pregiudizi.

Auschwitz è responsabilità di tutti noi.

E’ accaduto, è la macchi indelebile che non va via, che resta a brillare. Facciamo allora in modo di nono nasconderla sta macchia.

Ma come ricordo dell’abominio, della lordura di cui l’essere cosi vicino agli angeli è in grado di compiere quando vive nel buio.

Quando mette etichette davanti all’altro, ebreo zingaro, rom, cristiano, musulmano.

E che possa fungere da monito.

Da sprone per migliorarci.

Per far si che un cazzo di Sabato non divenga MAI più importante dell’uomo.

Mi hanno detto sii obiettiva.

Racconta il libro.

Ma davanti a quelle pagine non si può essere obiettivi.

Si può solo dire a Helen ti giuro sul mio sangue, sulla mia vita, che non esisterà mai più un fumo uscito nel cammino, voce disperata di una vita spezzata dall’imbecillità.

E tu ragazza o ragazzo in cerca di un senso alla vita, ti prego, non raccontarmi o raccontarti stronzate.

Non è cosi che il dolore si acquieterà.

Non è cosi che avrai la rivalsa su un mondo ingiusto o disuguale, o crudele.

Cosi lo alimenti solo e sei una pedina di un sistema cosi marcio che per essere deve uccidere.

Fai uno sforzo e si davvero un cazzo di ribelle.

Ma ancora tuona il cannone e ancora non è contento

di sangue la belva umana e ancora ci porta il vento e ancora ci porta il vento.

Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare

a vivere senza ammazzare e il vento si poserà e il vento si poserà.

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