Recensione “Scritture dal primo mondo” di Aliasor

 

 

 

 

 

Cosa succederebbe se avessimo sempre avuto torto e le divinità non fossero come abbiamo sempre creduto? Tempo non è il sempre rappresentato vecchietto ma ama gli anime, i videogiochi e mangia tutto il giorno cibo spazzatura; Vita non è buona ma è odiata dai suoi colleghi perché ipocrita e arrogante; Morte non è affatto crudele come si pensava. Sono solo alcune delle divinità che vivono il Multiverso, con infiniti mondi e possibilità ma un solo mistero: tre divinità sono morte.

Ora potrei narrarvi del destino degli umani costantemente in mutamento e gestito sui piatti della Bilancia del dio Fato, potrei dirvi che tutto ciò che credete sugli dèi Morte e Vita sono erronee e frutto di pregiudizi

Per troppo tempo i libri che si sono occupati del divino, hanno avuto un atteggiamento di riverito rispetto. Le divinità erano arroganti si, ma profondamente irreali, improntate di quel sacro distacco dalla materia. Persino le divinità greche, le meno algide, nei loro istinti mantenevano un contegno distaccato, altero, o per dirla in termini moderni, profondamente snob. Passioni, vendette, rabbia, sesso, non erano che passatempi per un eternità annoiata dalla perfezione, che trovava diletto nell’imitare i vizi (quasi mai le virtù) di quel soggetto strano e straordinario chiamato uomo. Mai in nessun libro, ho trovato divinità che si toglievano per un attimo i panni degli eccelsi, troppo convinti di se stessi per poter davvero partecipare al quotidiano, alla banalità da cui rifuggivano quasi schifati,. Questo se da un lato permetteva all’uomo di mantenere intatto un modello da raggiungere, ne veniva però al tempo stesso frustrato dalla sua irraggiungibilità. Per quanto tutti noi necessitiamo di alti ideali, questi se sono troppo distanti, troppo perfetti, divengono fonte di una profonda insoddisfazione, rendendoci abili all’odio del sé. Ecco perchè spesso nelle religioni costituite ci sono atti di profonda costrizione personale, di penitenze al limite della sopportazione, atroci mortificazioni della carne, e sangue a fiumi. Perché soltanto mondando la nostra orrorifica tendenza a venerare questa sozza materia, possiamo forse sperare di raggiungere il bene supremo. Ed è questo il vero danno. Abbiamo oramai da tempo separato la materialità, la componente terrena dai luoghi di culto, specialmente quelli relativi al nostro io più profondo, rendendolo il male assoluto. E se si inizia a combattere l’altra parte di noi stessi, non si potrà mai godere della bellezza del nostro essere profondamente, incredibilmente umani. La divinità, esclusa dalla nostra vita, resa quasi evanescente non fungerà mai più da sprone per affrontare con coraggio i nostri limiti, ma da limite stesso. Ecco perché il libro di Aliasor ha un notevole impatto emotivo e una grande importanza educativa: i suoi esseri divini non sono affatto perfetti. Qua morte, esistenza, tradimento, sono fantasticamente… imperfetti. Tempo ama i videogiochi e mangia cibo spazzatura. Vita è terrificantemente troppo convinta di se. Morte è desolantemente solo ma per nulla crudele:

Morte. Cos’è la morte? Chi è Morte? Abbiamo tutti paura della

Morte, no? Possiamo ingannarci, non pensarci, ma essa ci attende il giorno stesso della nostra nascita e tutti la raggiugiamo, chi prima e chi dopo. Fa paura, fa piangere, tutti la odiano e lei odia noi.

Bugia.

Ella ci ama, così come ci ama il dio che la incarna. Lei tiene a noi, forse più di Vita. La Morte è uguale per tutti, non credete? Nella vita c’è chi nasce ricco, chi povero, chi bello, chi brutto. Chi bianco, chi nero, chi intelligente, chi stupido. Chi alto, chi basso, chi umano o chi divinità. Eppure, nel momento del decesso nessuno riceve un favoritismo. “La Morte è uguale per tutti”.

Ed è la stessa, favolosa, incredibile e liberatoria conclusione del grande Antonio De Curtis, espressa nella poesia a livella.

‘A morte ‘o ssaje ched’e”…. e una livella.

‘Nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’ ‘o punto
c’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme
tu nun t’he fatto ancora chistu cunto?

Tutti loro sono sotto la minaccia dell’uomo nero, rappresentazione di ogni timore atavico cresciuto durante la separazione tra materia e spirito. Relegare la ribellione in un antro infernale significa accusare il lato curioso dell’essere umano all’immobilismo. E sapete bene che essere immobili significa, in fondo, morire. E se anche la Morte ci ama, e cerca di ricordare a noi tutti la nostra provenienza e il nostro fine ultimo:

Abbiamo solo questa vita per dimostrare chi siamo.

E siamo noi stessi le divinità descritte da Aliasor.

I dei li produciamo noi, senza di noi essi non potrebbero esistere, sarebbero solo potenzialità infinite in un ammasso energetico immobile e perfetto. Allora è l’imperfezione e quindi il caos il vero punto di partenza, quando tutte le molecole sono in procinto di organizzarsi in un perfetto reticolo di legami e scambi.

Ecco che l’immagine dell’uomo nero, la paura atavica che insidia questo processo creativo è semplicemente quello che accade oggi: le paure troncano (uccidono) la creatività. Il terrore atavico stoppa la produzione di sacro. Ma non temete. Anche questo strano conglomerato di oscurità è in fondo, malato, contagiato dall’unicità umana: l’emozione.

La loro razza non conosceva questo termine, eppure loro due lo erano. Erano troppo umani. Erano malati? Di quel virus chiamato “

emozione”, il più pericoloso dei batteri?

Bellissimo e coinvolgente, strano e onirico affresco del nostro costante, incessante, ambito bisogno di sacro.

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